domenica 4 ottobre 2015

 da "LINKIESTA" - 04 ottobre 2015 - di Giulio D'Antona




Epidemie, pandemie e informazione malata.




Interessante riflessione, apparsa sul giornale indipendente on-line "Linkiesta", sul rapporto tra minacce virali per il mondo umano e realtà scientifica. Di mezzo, il ruolo dei mezzi di informazione, sempre più strumenti di distrazione di massa.





La psittacosi, anche conosciuta come ornitosi, è una forma di polmonite batterica diffusa da Chlamydophila psittaci. Colpisce i pappagalli, ma anche altre specie di uccelli da compagnia, le pecore e in qualche caso cani e gatti. Può essere trasmessa all'uomo, per un po' di tempo è stata definita “peste da appartamento” ed è stato molto difficile isolarne cause e sintomi. Se non trattata, uccide il venti per cento degli infettati. L'ebola ne uccide tra il cinquanta e il novanta, ma non viene trasmessa da animali che popolano le nostre stanze e dormono sui nostri tappeti e divani.

Ci si potrebbe fermare a questo punto, come si fa in questo casi, e osservare la paranoia diffondersi in modo non tanto differente dal diffondersi dei batteri e dei virus che la generano. Vincere le debolezze organiche, opporre resistenza agli antibiotici e trasformarsi nella prima, vera, pandemia. Ignorando l'unica nozione fondamentale: del problema di Chlamydiophila non ci si preoccupa più da quasi novant'anni.

Nel dicembre del 1929, in tempi di piena crisi, un americano di nome Simon Martin ha deciso di comprare un pappagallo per sua moglie. Volendole farle una sorpresa, lo ha affidato a sua figlia Edith e al marito Lee Kalmey a Baltimora, perché lo tenessero con loro fino a Natale. Che il pappagallo non fosse in perfetta forma è stato chiaro fin da subito: aveva gli occhi gonfi, le penne arruffate, era narcolettico. Entro qualche settimana, poco dopo essere stato portato ad Annapolis a casa Martin, Lee, Edith, Simon e sua moglie Lilian si trovavano per le mani un pappagallo morto. Quando i Kalmey e Lilian Martin, verso i primi giorni del 1930, hanno cominciato a manifestare i sintomi della malattia, a metà strada tra la febbre tifoide e la polmonite, il collegamento con il volatile è venuto quasi naturale.

Il 6 gennaio, un medico di larghe vedute che aveva appena letto della “febbre dei pappagalli” su un giornale argentino e che era stato chiamato a visitare la famiglia ha tracciato il profilo della psittacosi, che sembrava si stesse diffondendo dal Sudamerica e in qualche remota regione europea (non meglio definita). La sua reazione immediata, non avendo idea di cosa fare per trattare il caso dei Martin, è stata quella di scrivere al Dipartimento della Sanità Pubblica a Washington. Il suo telegramma diceva: «Prego, mettere a disposizione siero trattamento febbre pappagalli quanto prima». Non esisteva alcun siero, non esisteva alcun vaccino e nessuno sapeva che in effetti non ce n'era bisogno.

La diffusione della paranoia virale è un piano inclinato su cui le voci rotolano libere, inglobando altre voci, supposizioni, teorie e sentiti dire come una palla di neve che si ingrossa e prende velocità scendendo lungo il pendio. Non c'è altro modo per arginarle se non con un ostacolo secco sul quale lasciarle infrangere. Più sono veloci, più lo schianto sarà spettacolare.

Nel caso della psittacosi del 1930, la spinta iniziale l'ha data il Washington Post già nella notte del 8 gennaio. La malattia dei pappagalli lascia gli esperti senza parole, titolava. Di lì le radio hanno cominciato a scatenarsi, la notizia ha cominciato a essere ripresa dai giornali locali e gli episodi di paranoia hanno cominciato a diffondersi senza controllo. Un ammiraglio della marina ha ordinato a tutti i marinai che possedevano un pappagallo da compagnia di liberarsene buttandolo in mare con tutta la gabbia. Il sindaco di una cittadina del Midwest ha fatto emettere un'ordinanza che imponeva di “Tirare il collo a tutti i volatili domestici”. La gente ha cominciato ad abbandonare i cadaveri dei propri animali per le strade, quando non li lasciava liberi di volare e di incontrare la morte per altra mano.

Più la storia cresceva più diventava familiare, più diventava familiare più la sua minaccia reale si affievoliva e la caccia al pappagallo diventava una consuetudine. Mancava solo una cosa: le vittime umane.

Nel caso della febbre dei pappagalli la paranoia non è durata più di qualche settimana, attraversando un Paese messo in ginocchio da altri fattori che sembrava non aver bisogno di perdersi troppo nella paura di un morbo batterico, ma che lo ha accolto come una boccata di aria fresca. Solo una decina di anni prima, all'indomani dei progressi medici della fine dell'Ottocento e mentre cinquanta milioni di persone in tutto il mondo morivano di influenza, la gente aveva imparato a incolpare i batteri — non più dio, il diavolo o le streghe — per le catastrofi. Nella metà degli anni venti erano stati pubblicati numerosi saggi e trattati ed era stata coniata la definizione di “Cacciatore di microbi”. Il caso di Annapolis era diventato lo scenario ideale per mettere alla prova l'efficienza della nuova scienza, sotto gli occhi di una stampa già sovra-stimolata. Alla morte della moglie di Lilian Martin, la notizia ha cominciato a rimbalzare in tutto il Paese: Los Angeles Times, New York Post, Boston Globe.

Sebbene non ce ne fosse né la prova né il bisogno, gli articoli si ricalcavano sull'alta viralità del morbo e su quanto fosse letale per gli esseri umani. Le voci di nuovi casi rimbalzavano da una costa all'altra, senza che nessuno si prendesse mai la briga di verificarle. In capo a meno di un mese era appurato che la psittacosi potesse essere trattata con un normale ciclo di antibiotici e che fosse piuttosto rara anche tra i poveri pappagalli, che fino ad allora erano stati gli unici a pagarne le conseguenze.

Per ogni paranoico che prende la minaccia globale alla lettera, in venti cercano di approfondire la notizia per smascherarne l'inattendibilità o per sincerarsi che tutto vada bene.

Col passare degli anni e l'universalizzarsi delle conoscenze, le epidemie, forse perché sempre più rare, sono diventate argomento da tabloid più che casi di studio. Paradossalmente, il moltiplicarsi delle fonti arbitrarie e la maggiore disponibilità di informazioni, hanno immunizzato il pubblico in un fenomeno non dissimile dal metodo delle vaccinazioni. La diffusione di notizie ingigantite a pochi giorni dai primi casi non fa che irrobustire la coscienza dei lettori, rendendoli più scettici nei tempi a venire e quindi più preparati alla “bufala” — termine orrendo ma in questo caso utile. Per ogni paranoico che prende la minaccia globale alla lettera, in dieci sollevano le spalle e continuano a vivere la propria vita e in venti cercano di approfondire la notizia per smascherarne l'inattendibilità o per sincerarsi che tutto vada bene. Risultato: il fenomeno è meno duraturo e il diffondersi dell'ansia è meno probabile.

In grande, la recente proliferazione di informazioni riguardo il virus ebola, inizialmente incontrollata e allarmante, ha fatto sì che nel giro di poco tempo i lettori più informati cominciassero a pretendere chiarezza e che quindi anche i giornali si responsabilizzassero e arginassero il fenomeno, invece di alimentarlo. Così, la geografia del morbo ha mantenuto i propri confini e l'improbabilità di una pandemia si è fatta più evidente, grazie a una forma di scetticismo costruttivo in risposta all'allarmismo proliferante degli ultimi trent'anni.

In piccolo, ogni anno a fine settembre le fonti di informazione locali di New York aprono un osservatorio sull'uragano più vicino e lo seguono salire dai Caraibi lungo il golfo del Messico per scongiurare il pericolo che si abbatta sulla costa Est degli Stati Uniti. Anno dopo anno molti newyorchesi fanno provviste, in vista di un nuovo Sandy e rimangono incollati a Internet per essere preparati al peggio, che non sta tanto nelle piogge torrenziali, quanto nel reagire scompostamente a una minaccia reale.

Soltanto due uragani su dieci hanno effettivamente colpito la città duramente negli ultimi anni: Irene e Sandy. Lo scetticismo costruttivo mantiene le persone informate e argina il problema alla radice, molto più efficacemente della diffusione di un allarme spropositato, che finisce per procurare più danni che benefici. Ai tempi delle colonie, il terrore delle carestie ha fatto più morti che le carestie stesse, tra presunte streghe e nativi innocenti.

Per tornare alla febbre dei pappagalli: l'inconsistenza delle notizie allarmiste ha ben presto dato i suoi frutti. Non ha slavato la vita a Lilian e Edith Martin ma ha fatto sì che il Dipartimento della Sanità si desse da fare per risolvere un problema che nessuno aveva intenzione di osservare più da vicino, perseguendo la strada più semplice. Ogni volta che una nuova minaccia virale si affaccerà sul mondo degli uomini, la stampa andrà in subbuglio sempre prima e diffonderà il sospetto sempre più velocemente, infrangendosi sulle evidenze. Allora rimarrà soltanto la notizia, i fatti e l'attesa per la soluzione.

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